Le 4 figure della relazione dipendente: la forma passivo-dipendente
Ciascuno dei quattro profili che descriverò in questo e nei prossimi articoli incarna una possibile modalità psicopatologica di vivere le relazioni rispetto al tema della dipendenza-autonomia. Sono quattro possibili esiti e sviluppi di relazioni disfunzionali vissute nell’infanzia, ciascuno dei quali ripropone un certo modello di legame, è animato da un sentimento nucleare prevalente, è sostenuto da una particolare forma di illusione e da distorsioni del pensiero ed è caratterizzato da uno specifico atteggiamento sul piano dei comportamenti. Vediamo ora la forma passivo-dipendente:
“Ti amo perché ho bisogno di te”.
Come visto nel precedente articolo , la persona dipendente ha una vorace fame d’amore insoddisfatta che si porta dentro dal suo passato infantile, teme la separazione e l’abbandono sopra ogni cosa e farebbe di tutto per evitarli. Desidera essere amata, ma finisce sempre o spesso per coinvolgersi in relazioni sbagliate, con persone fredde e anaffettive, alle quali resta aggrappato con le unghie e con i denti pur di non precipitare nell’abisso della solitudine che la terrorizza. Alla fine tuttavia la sua profezia spesso si autoadempie: viene rifiutata ed abbandonata o tradita. Come mai?
La persona dipendente è in effetti attratta dalle relazioni difficili, complicate e sofferte e, non di rado, se incontra un partner rispettoso, equilibrato e sinceramente interessato, tende a sentirlo come poco attraente, noioso, poco interessante, appiccicoso. Questo può essere spiegato con diverse ragioni: innanzitutto la possibilità di ricevere amore, interesse e sostegno reali è difficile da sostenere, semplicemente perchè la persona dipendente non ci è abituata. La sua scarsa autostima ed i suoi sentimenti di indegnità la fanno sentire immeritevole. Inoltre tende a percepire con sospetto e diffidenza l’atteggiamento interessato e premuroso dell’altro, credendo che possa esserci dietro qualche intento manipolatorio, che sia l’altro ad avere bisogno di qualcosa o proiettando su di lui un’immagine di debolezza e bisogno. E’ come se una profonda credenza patogena agisse inconsciamente portandolo a pensare “se gli piace una persona come me, allora deve avere qualcosa che non va”. Così, la persona che può offrire una relazione sicura e calda viene facilmente svalutata, considerata banale, poco eccitante o inadeguata. Infine, a un livello ancora più profondo, sarebbe troppo pericoloso abbandonarsi alla fiducia e godere di un legame sicuro, perchè l‘ombra del rifiuto, del tradimento e dell’abbandono lo renderebbero intollerabile. A volte può anche coinvolgersi in più di una relazione contemporaneamente, perchè gli è itollarabile correre il rischio di affidarsi ad una sola persona.
La voragine affettiva che il dipendente si porta dentro è come incolmabile e per quanto un partner sinceramente impegnato possa fare, il dipendente sentirebbe che non è mai abbastanza e continuerebbe a mettere sul banco di prova un partner affettuoso, con continue richieste e lamentele, fino a condurlo all’esasperazione. Un partner con attaccamento sicuro e non patologico non resterebbe a lungo in una dinamica dominata da paura di abbandono infondata, strategie di controllo e protesta passiva e impotente. Convinto di meritare di meglio e fiducioso di poter avere delle valide alternative dalla vita, troncherebbe comunque la relazione senza restare impigliato.
Ma da chi si lascia più facilmente agganciare nelle relazioni di coppia la persona con una problematica di dipendenza affettiva? La risposta è semplice e ormai pubblicamente nota: da un narcisista, da uno psicopatico o da un sadico. Possono essere personalità altamente seduttive, eccitanti, capaci di travolgere nella fase iniziale con un love bombing da ubriacare la preda. In loro i dipendenti proiettano un’immagine idealizzata di forza, autonomia e determinazione, nutrendo il sé grandioso di questi tipi di personalità. Ma dopo un certo tempo, terminata la luna di miele, si entra in una dimensione più realistica della relazione e l’atteggiamento di questi incantatori cambia: di fronte alle richieste e alle aspettative del partner dipendente, iniziano a sentirsi soffocati, invasi e a tirarsi indietro. A questo punto è fatta! La dinamica dipendente-evitante si instaura e il dipendente cercherà di aggrapparsi al suo oggetto d’amore sempre di più, per ottenere sempre di meno. Si instaura una vera e propria tossicodipendenza, con ricerca compulsiva della “dose”, anche se sempre meno soddisfacente, e incapacità di sospendere il rapporto, anche se lo si sente dannoso e distruttivo. Più si teme la perdita e l’abbandono e più si attivano l’attaccamento e la ricerca di vicinanza e controllo, in un circolo vizioso.
Il legame è quindi un legame di dipendenza in cui si sente di non avere scelta o alternativa, nella misura in cui l’emozione dominante è l’angoscia di abbandono e l’incapacità di sostenere anche solo l’idea della solitudine, inimmaginabile, rende impossibile compiere delle scelte sane, autonome, guidate da un atteggiamento critico. L’esame di realtà in effetti è compromesso: il dipendente distorce la realtà e la filtra, sia quando idealizza l’altro proiettandovi tutte le qualità che non riconosce in se stesso e delegando così ogni potere nella relazione al partner, sia quando nega la realtà, giustificando anche le più palesi vessazioni che subisce. Questo per difendersi anche da sentimenti di vergogna e umiliazione, che lo portano a volte a ritirarsi socialmente e a fare terra bruciata intorno a sè, aggrappandosi in maniera ancora più disperata al suo carnefice. Alcuni dipendenti sono disposti a sacrificare tutto sull’altare della loro relazione: interessi e gusti personali, il loro tempo, progetti, lavoro e perfino i figli, pur di tenersi legati un partner che a sua volta approfitta in maniera manipolatoria, detenendo tutto il potere, senza alcuna empatia verso i sentimenti e i bisogni dell’altro.
Il netto squilibrio di potere nella coppia fa oscillare l’atteggiamento del dipendente tra asservimento sottomesso e protesta impotente e rabbiosa. A volte sentimenti di rabbia e di invidia verso il partner possono essere espressi in modi passivo-aggressivi anziché diretti e maturi. I dipendenti hanno spesso anche una cronica incapacità di chiedere ed esprimere bisogni in modo maturo, diretto e assertivo, perché sentono questa cosa illegittima. Per loro è più facile sopprimere i loro veri bisogni, per poi lamentarsi, con l’aspettativa che l’altro dovrebbe capire cosa desiderano senza che essi debbano prendersi la responsabilità e il rischio di fare una richiesta chiara. Non si sentono autorizzati a chiedere nulla, ma in alcuni casi, se il partner invece è abbastanza paziente e tollerante, allora possono lasciarsi andare a esplosioni rabbiose.
Il dipendente affettivo prova una profonda rabbia, non sempre del tutto consapevole, una rabbia antica accumulata nel tempo, un sottostante rancore, che a volte emerge con sentimenti di invidia, desiderio di vendetta e di essere risarciti. Spesso questa rabbia inconscia viene espressa in modi indiretti e corrosivi, per cui anche la vittima può assumere il ruolo di carnefice: allusioni, frecciatine, lamentele continue, distrazioni e dimenticanze, procrastinazioni, dispettucci, silenzi e bronci infantili.
Ma il soggetto dipendente- passivo dove prende tante energie e motivazione per continuare imperterrito a investire in questa tormentosa relazione?
“La speranza è il peggiore tra i mali, poichè prolunga i tormenti degli uomini ” scrisse Friedrich Nietzsche. Questa frase esprime pienamente il punto: è l’illusione a mandare avanti, giorno dopo giorno, il dipendente affettivo; l’illusione di ricevere finalmente un riscatto per tutta la deprivazione e la fame che ha dovuto soffrire. Ad un livello più profondo e inconscio si tratta dell’illusione di poter finalmente trovare un giorno, grazie alla sua infaticabile e cieca dedizione, quel genitore simbolico che finalmente lo amerà in modo perfetto, fusionale, telepatico, simbiotico, quel genitore che avrebbe meritato e che non ha avuto. Insegue qualcosa che non potrà mai più essere recuperato, in poche crude parole.
Questo, sul piano del lavoro psicoterapeutico richiede, non solo di rinforzare il contatto con i propri legittimi bisogni, il diritto di essere separato e differenziato, affinché possa essere vissuto come una libertà e non come una condanna; non solo di sostenere il senso di identità personale, di coesione e di autostima, di apprendere modi più maturi di chiedere, di condividere con fiducia anziché controllare, non solo tutte queste importanti conquiste, e difficili, ma anche la profonda elaborazione di un lutto dolorosissimo. Un doppio lutto: non solo quello per la relazione attuale di cui deve accettare l’impossibilità, ma anche quello di non aver avuto l’amore di cui avevano bisogno in un tempo in cui non potevano da soli provvedere a se stessi e che non potranno mai più riparare. Dopo di questo passaggio, spesso depressivo, bisogna che il dipendente affettivo inizi ad apprendere e scoprire che oggi invece è un adulto capace e ha le risorse, o comunque le può sviluppare, per sostenere la solitudine senza sentirsi annientato. Solo così potrà scegliere chi amare e da chi lasciarsi amare, in maniera consapevole. Una scelta di interdipendenza matura e non una schiavitù.