Ansia e ritiro sociale. Quando gli altri fanno paura

Ansia e ritiro sociale. Quando gli altri fanno paura

I Disturbi d’Ansia Sociale

Vergogna, ansia, imbarazzo, inibizione, timore di affrontare situazioni sociali in cui ci si sente esposti al giudizio degli altri, sintomi neurovegetativi (tremori, rossore, sudorazione, dispnea, tachicardia…), sono questi i principali sintomi dei disturbi di Ansia Sociale, accompagnati da comportamenti di evitamento delle situazioni di interazione sociale o di esposizione.

L’ansia sociale colpisce tra l’8 e il 12% della popolazione adulta  ed in psicologia clinica si distinguono tre quadri in cui va trattata: la Timidezza patologica, La Fobia sociale ed il Disturbo evitante di personalità.

La prima è caratterizzata da emozioni di paura del contatto sociale, imbarazzo e vergogna,  ha una forte base costituzionale e temperamentale ed i primi segnali compaiono già nel primo anno di vita e nella prima infanzia. Alcuni neonati, ad esempio, più di altri si mostrano impauriti ed hanno reazioni di angoscia alla comparsa dell’estraneo e sono più inclini a sviluppare forme di imbarazzo e comportamenti timidi in anni successivi.

La tendenza della famiglia ad assumere atteggiamenti di eccessiva protezione verso di loro favorisce la stabilizzazione di quei processi cognitivi ed emotivi che ritroveremo poi nelle persone ansiose sociali. Un genitore a sua volta ansioso, infatti, tenderà a favorire nel bambino il controllo delle reazioni emotive attraverso l’evitamento delle situazioni e rinforzerà così nel bambino il senso di inadeguatezza interpersonale o l’idea che il mondo sia un luogo pericoloso. Spesso i genitori si convincono che il problema sia solo temporaneo e che tenderà a risolversi spontaneamente; solo quando arriva l’insuccesso scolastico o il rifiuto di andare a scuola si decidono a consultare uno specialista.

Nell’adolescenza e nell’età adulta possono venirsi a configurare dei quadri di Fobia Sociale, sia legata a situazioni specifiche, come parlare in pubblico, partecipare ad eventi sociali, andare a scuola, ma anche generalizzata a tutte le situazioni in cui ci si sente esposti al giudizio sociale.

Nel Disturbo Evitante di Personalità, che possiamo considerare una variante più grave e generalizzata della fobia sociale specifica, nonostante il desiderio di avere delle relazioni interpersonali, la persona è inibita da forti sensi di inadeguatezza e timori di giudizio negativo, umiliazione e rifiuto, prova un forte senso di estraneità e di esclusione rispetto ai gruppi di appartenenza e tende a pensare di essere diverso rispetto agli altri. La persona evita difensivamente il confronto sociale, eccetto che che nelle più strette e sicure relazioni familiari, ma in questo modo tende a confermare e a stabilizzare il senso di estraneità e di non appartenenza, che conducono all’isolamento e a profonda sofferenza.

In queste condizioni i fattori cognitivi hanno un ruolo importante: si tratta dei modi in cui il soggetto tende a percepire se stesso e gli altri, a interpretare le intenzioni ed i pensieri altrui e a valutare se stesso, spesso in maniere distorte ed irrazionali, ma che hanno in verità una logica rispetto alla storia di vita e alle esperienze relazionali del soggetto.

 

I comportamenti autoprotettivi, come l’evitamento sociale, abbassano temporaneamente l’ansia, ma allo stesso tempo ne rinforzano i circoli viziosi stabilizzando il disturbo, favorendo l’emergere di altri disturbi emotivi, come la depressione, o il ricorso a soluzioni di gestione disfunzionali, come l’abuso di alcol o droghe.

Sviluppo e origini

Uno studio condotto da Battaglia e collaboratori nel 2005 ha messo in evidenza che nei bambini timidi è presente una variante del gene che regola il metabolismo della serotonina e anche nella neurofisiologia della  dopamina: ciò si traduce in una minore ricerca della novità e dell’esplorazione. Inoltre da altri studi è emerso che nei bambini con ansia sociale la paura degli altri si manifesta molto presto in una maggiore difficoltà a riconoscere le espressioni facciali degli altri e a dargli significato (Procacci, Popolo, Marsigli 2011).

All’età di tre anni il bambino sviluppa emozioni sociali come orgoglio, vergogna e colpa e inizia a essere in grado di valutare i propri comportamenti in base agli standard. I sentimenti di imbarazzo sono importanti per regolare i comportamenti sociali, ma quando sono molto intensi e frequenti il bambino può inibire la propria comunicazione  e limitare lo sviluppo delle competenze sociali, sia nel comprendere le intenzioni degli altri, che nel valutare le conseguenze dei propri comportamenti sugli altri. Questi bambini sono sempre molto assorbiti dal loro imbarazzo e dall’impaccio che ne consegue e non si sintonizzano sull’altro per imparare a leggere i segnali sociali. In altre parole, invece di leggere la mente dell’altro, il bambino ansioso tende ad attribuire all’altro pensieri negativi su di sé.

Anche gli stili genitoriali e gli eventi di vita possono avere un ruolo importante.

Non solo l’ipercontrollo e l’iperprotettività, ma anche atteggiamenti genitoriali di indisponibilità, con tendenza alla critica e al rifiuto, o che stimolino troppo al confronto e usino l’umiliazione, possono favorire nel bambino l’idea di essere indegno di stima e di amore, di essere un peso o che i suoi bisogni siano eccessivi per gli altri o l’aspettativa che il mondo sarà ostile e critico nei suoi confronti.

Come spiegano Thomas e Stella Chess, due studiosi del temperamento e delle differenze individuali, è la compatibilità tra stile temperamentale del bambino e stile genitoriale ad essere determinante per la qualità della relazione e per il futuro sviluppo psicologico.

Ci sono poi particolari eventi di vita che possono aumentare il rischio di sviluppare una fobia in persone già costituzionalmente predisposte, ad esempio la morte di un genitore prima dei 17 anni, come emerso in uno studio condotto da Kendler (1992, in Gabbard).

Un altro fattore da considerare sono le esperienze di esclusione e di non appartenenza al gruppo: sentirsi parte del gruppo favorisce sia il benessere psicologico che fisico, facilitando anche l’apprendimento, la memoria ed il rendimento in generale. Al contrario situazioni di esclusione e di rifiuto sociale creano profonda sofferenza, compromettono l’autostima fino a condurre ad ansia e depressione.

Studi di neurofisiologia (Eisenberger, Lieberman,Williams 2003) hanno messo in luce che “il dolore da esclusione sociale” è paragonabile per intensità a quello da male fisico e funzionalmente attiva le stesse aree cerebrali.

Cosa si può fare

I sintomi dell’ansia sociale possono essere ridotti e la persona può raggiungere un maggior benessere: un percorso di psicoterapia può aiutare a comprendere ed integrare meglio gli aspetti di pensiero (come ci rappresentiamo noi stessi e gli altri, cosa immaginiamo e ci aspettiamo da loro, come crediamo di apparire…), quelli emozionali e fisici, i conseguenti comportamenti e gli schemi relazionali (i copioni) sottostanti, tenendo conto della storia di vita della persona. Un terapeuta preparato può utilizzare la relazione terapeutica per esplorare nuovi punti di vista, ad esempio, per modificare i sistemi di attribuzione  e le aspettative negative del paziente (pensieri come “Quando entro in un bar tutti mi guardano….”, “sicuramente dirò qualcosa di stupido e tutti mi giudicheranno”, “inizierò a sudare e mi bloccherò”) per consentirgli di sperimentarsi diversamente in un ambiente sicuro e poi progressivamente anche nella realtà esterna. Si possono incrementare le abilità sociali, portando la persona a sintonizzarsi più realisticamente sull’impatto che i comportamenti hanno sugli altri, e anche a sviluppare una maggiore consapevolezza di se stesso, anziché percepirsi sempre dall’esterno attraverso gli occhi presuntamente giudicanti e critici degli altri. Anche i percorsi di gruppo, come i social skills training, possono essere molto utili per sperimentarsi e migliorare le capacità interpersonali.